Dall'Etica
Nicomachea di Aristotele:
"Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos'è? È
manifesto, infatti, che esso è diverso in un'azione e in un'arte diversa: è
diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa
è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il
resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in architettura
la casa, una cosa in un'arte, un'altra in un'altra arte, ma in ogni azione e in
ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché,
se c'è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà
il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.
Pur procedendo
per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: ma dobbiamo cercare
di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché
noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti
e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il bene
supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una
qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo
cercando, ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi,
«più perfetto» ciò che è perseguito per sé stesso in confronto con ciò che è
perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto
con quelle cose che sono scelte sia per sé stesse sia per altro; quindi diciamo
perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di
tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, perché la scegliamo
sempre per sé stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e
intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per sé stessi (sceglieremmo
infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient'altro), ma li
scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo
di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste
cose, né in generale in vista di altro.
Ma, certo,
dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un'affermazione su
cui c'è completo accordo; d'altra parte si sente il desiderio che si dica
ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si
cogliesse la funzione dell'uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo
scultore e per chiunque eserciti un'arte, e in generale per tutte le cose che
hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene
che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si
potrebbe ritenere che sia anche per l'uomo, se pur c'è una sua funzione
propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del
calzolaio, mentre non ce n'è alcuna propria dell'uomo, ma è nato senza alcuna
funzione specifica? Oppure come c'è, manifestamente, una funzione determinata
dell'occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo,
così anche dell'uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione
oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È
manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta
cercando ciò che è proprio dell'uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si
riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch'essa è,
manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque
rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale
dell'anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla
ragione, mentre l'altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché
anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è
essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione
dell'anima dell'uomo l'attività secondo ragione o, quanto meno, non senza
ragione, e se diciamo che nell'ambito di un genere è identica la funzione di un
individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo
di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi,
rimanendo aggiunta alla funzione l'eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è
proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene.
Se è così, se poniamo come funzione propria dell'uomo un certo tipo di vita
(appunto questa attività dell'anima e le azioni accompagnate da ragione) e
funzione propria dell'uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna
cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è
così, il bene dell'uomo consiste in un'attività dell'anima secondo la sua
virtù, e se le virtù sono più d'una, secondo la migliore e la più perfetta.
Ma bisogna aggiungere: in una vita
compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol
giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice."
Nelle ricerche di filosofia pratica,
Aristotele muove dalla constatazione che tutte le azioni degli uomini hanno
come fine un bene. Essendo molteplici le azioni sono molteplici anche i fini:
e, tuttavia, se la maggior parte dei beni viene ricercata in vista del
conseguimento di altri beni deve esistere un bene il quale venga ricercato per
se stesso, per evitare il regresso all'infinito, che svuoterebbe l'agire umano
da ogni specificata finalità.
E' dunque necessario, in primo luogo,
determinare quale sia il bene in vista del quale vengono ricercati tutti gli
altri, cioè il bene supremo (agathòon to àriston): esso
dovrà configurarsi come un bene effettivamente alla portata dell'uomo, da
questi conseguibile mediante
le sue azioni, cioè in definitiva un bene pratico.
Per Aristotele, il bene supremo cui l'uomo
può aspirare è la felicità (eudamonìa),
dal momento che essa trova concorde la maggioranza degli uomini.
Tuttavia, intorno al significato da
assegnare al termine "felicità" regna il disaccordo. Il volgo
identifica la felicità con il piacere dei sensi: ma tale piacere non può
costituire il bene supremo conseguibile dall'uomo, essendo comune anche agli
altri animali. Inaccettabile per Aristotele è anche l'identificazione della
felicità con il possesso di ingenti ricchezze: mentre infatti il bene supremo
costituisce il termine ultimo delle aspirazioni umane, la ricchezza è un mezzo
del quale ci si serve in vista di altro
In quanto fine delle azioni, invece, la
felicità deve essere qualcosa di autosufficiente (àutarches), cioè di
desiderabile per se stesso, e di perfetto (tèleion). Come per il
flautista il sommo bene consiste nell'esercitare con perfezione l'attività che
gli è propria, così è necessario che la felicità consista nell'esercizio delle
attività proprie dell'uomo: non nel nutrirsi e nel riprodursi (cioè
nell'esplicarsi in facoltà dell'anima vegetativa, di cui dispongono anche le
piante); e neppure nella percezione sensoriale, per la quale l'uomo è simile
agli altri animali. Il bene pratico per l'uomo consisterà allora nel possesso
(e ancor più nell'effettivo esercizio per il più lungo tempo possibile) di
attività connesse all'impiego della ragione, la facoltà esclusivamente e
propriamente umana; o, meglio, nell'esercizio di tali attività a livelli di
eccellenza, nel quale consiste la virtù (aretè).