martedì 17 settembre 2013

Aristotele - La felicità sta nell’esercizio della razionalità

Dall'Etica Nicomachea di Aristotele:

"Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos'è? È manifesto, infatti, che esso è diverso in un'azione e in un'arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un'arte, un'altra in un'altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c'è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.
Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: ma dobbiamo cercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, «più perfetto» ciò che è perseguito per sé stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per sé stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, perché la scegliamo sempre per sé stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per sé stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient'altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro.
Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un'affermazione su cui c'è completo accordo; d'altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell'uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un'arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l'uomo, se pur c'è una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n'è alcuna propria dell'uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c'è, manifestamente, una funzione determinata dell'occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell'uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell'uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch'essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell'anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l'altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell'anima dell'uomo l'attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell'ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l'eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell'uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell'anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell'uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell'uomo consiste in un'attività dell'anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d'una, secondo la migliore e la più perfetta.
Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice."

Nelle ricerche di filosofia pratica, Aristotele muove dalla constatazione che tutte le azioni degli uomini hanno come fine un bene. Essendo molteplici le azioni sono molteplici anche i fini: e, tuttavia, se la maggior parte dei beni viene ricercata in vista del conseguimento di altri beni deve esistere un bene il quale venga ricercato per se stesso, per evitare il regresso all'infinito, che svuoterebbe l'agire umano da ogni specificata finalità.
E' dunque necessario, in primo luogo, determinare quale sia il bene in vista del quale vengono ricercati tutti gli altri, cioè il bene supremo (agathòon to àriston): esso dovrà configurarsi come un bene effettivamente alla portata dell'uomo, da questi conseguibile mediante le sue azioni, cioè in definitiva un bene pratico.
Per Aristotele, il bene supremo cui l'uomo può aspirare è la felicità (eudamonìa), dal momento che essa trova concorde la maggioranza degli uomini.

Tuttavia, intorno al significato da assegnare al termine "felicità" regna il disaccordo. Il volgo identifica la felicità con il piacere dei sensi: ma tale piacere non può costituire il bene supremo conseguibile dall'uomo, essendo comune anche agli altri animali. Inaccettabile per Aristotele è anche l'identificazione della felicità con il possesso di ingenti ricchezze: mentre infatti il bene supremo costituisce il termine ultimo delle aspirazioni umane, la ricchezza è un mezzo del quale ci si serve in vista di altro

In quanto fine delle azioni, invece, la felicità deve essere qualcosa di autosufficiente (àutarches), cioè di desiderabile per se stesso, e di perfetto (tèleion). Come per il flautista il sommo bene consiste nell'esercitare con perfezione l'attività che gli è propria, così è necessario che la felicità consista nell'esercizio delle attività proprie dell'uomo: non nel nutrirsi e nel riprodursi (cioè nell'esplicarsi in facoltà dell'anima vegetativa, di cui dispongono anche le piante); e neppure nella percezione sensoriale, per la quale l'uomo è simile agli altri animali. Il bene pratico per l'uomo consisterà allora nel possesso (e ancor più nell'effettivo esercizio per il più lungo tempo possibile) di attività connesse all'impiego della ragione, la facoltà esclusivamente e propriamente umana; o, meglio, nell'esercizio di tali attività a livelli di eccellenza, nel quale consiste la virtù (aretè).


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