Dall' Etica Nicomachea di Aristotele:
"[5] Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo
perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la virtù, giacché così, forse,
potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene
anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa
moltissime delle sue fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini
buoni [10] e ossequienti alle leggi. Come esempio di uomini politici
autentici abbiamo i legislatori di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne
possono essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è propria della
scienza politica, è chiaro che la ricerca si potrà svolgere conformemente alla
nostra intenzione iniziale.
La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù
umana, giacché [15] è il bene umano e la felicità umana che stiamo
cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì quella
dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose
stanno così, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò
che riguarda l’anima, come anche chi intende curare gli
occhi [20] deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più in quanto
la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei
medici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico
dunque deve cercar di conoscere l’anima, e cercare di conoscerla per le ragioni
dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo cercando, [25] giacché
indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci siamo
proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti
essoterici25 in misura sufficiente, e possiamo servirci di quelli: per
esempio, vi si dice che una parte di essa è irrazionale, e l’altra è fornita di
ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come
tutto [30] ciò che è divisibile in parti, o se invece le parti sono
due solo idealmente, mentre per natura sono inseparabili, come nella
circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa differenza per la
presente argomentazione.
Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere
comune anche ai vegetali (intendo quella che è causa della nutrizione e
dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima [1102b] si può
ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal
quale, negli esseri completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia
la stessa piuttosto che un’altra. Dunque la virtù di questa facoltà è,
manifestamente, una virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene infatti
che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva soprattutto durante il
sonno, [5] e il buono ed il cattivo si differenziano molto poco nel
sonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli uomini felici non
differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è
inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o
miserabile), a meno che, debolmente, pur le giungano alcuni
movimenti, [10] e che sia per questo che i sogni degli uomini per
bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e
si può tralasciare la facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna
partecipazione alla virtù umana. Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà
naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia in qualche modo partecipe di
ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello
incontinente, [15] la ragione, cioè la parte razionale dell’anima,
giacché è essa che li esorta alle azioni più nobili. È manifesto poi in essi
anche un altro elemento, che, per natura, è estraneo alla ragione, e combatte e
contrasta la ragione. Proprio come le membra paralizzate: quando uno si propone
di muoverle a destra, si volgono, [20] al contrario, a sinistra; così
avviene anche per l’anima: le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si
volgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi vediamo l’elemento
deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare che
nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e
resiste. [25] In che senso sia estraneo alla ragione non ha
importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa, manifestamente, della ragione,
come abbiamo detto26: nell’uomo continente ubbidisce di certo alla ragione, e
forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché
in essi tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche
l’elemento irrazionale è duplice. La parte vegetativa non partecipa per
niente [30] della ragione, mentre la facoltà del desiderio e, in
generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo, in quanto le dà ascolto
e le ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo "accettare la
ragione" del padre e degli amici, e non nel senso in cui diciamo
"comprendere la ragione" delle dimostrazioni matematiche. E che
l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo
mostrano gli ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di
esortazione. [1103a] Ma se è necessario dire che anche questo
elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione
sarà duplice: l’una la possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel
senso che le dà ascolto come ad un padre.
Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa
divisione dell’anima. Infatti alcune le chiamiamo [5] virtù
dianoetiche altre virtù etiche: dianoetiche sapienza, giudizio e
saggezza, etiche invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del
carattere di un uomo non diciamo che egli è sapiente o giudizioso, ma che è
mite o temperante; però lodiamo anche il saggio per la sua disposizione: e le
disposizioni che meritano lode [10] le denominiamo virtù."
Poiché dunque
il significato del termine "felicità" è venuto chiarendosi come "attività dell'anima secondo virtù",
l'indagine si orienta verso l'analisi delle virtù. Aristotele osserva come tra
due facoltà non razionali dell'anima quella vegetativa non abbia alcun rapporto
con la ragione e invece quella desiderativa,
collegata alla sensitiva, in qualche modo ne partecipi, per esempio quando
ottempera alle esortazioni e alla direttive della ragione. Talchè si può dire
che le parti dell'anima sulle quali la ragione esercita la propria influenza
sono due: quella autonoma e direttiva e quella che obbedisca alla prima. Sulla
scorta di questa distinzione, Aristotele suddivide le virtù in dianoetiche, proprie dell'anima razionale, ed etiche, proprie di quella desiderativa.
"Di due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica ed etica: quella dianoetica trae in buona parte la propria origine e la sua crescita dall'insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall'abitudine, dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla parola "abitudine". Da ciò risulta anche chiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura: infatti, nulla di ciò che è per natura può assumere abitudini ad essa contrarie: per esempio, la pietra che per natura si porta verso il basso non può abituarsi a portarsi verso l’alto, neppure se si volesse abituarla gettandola in alto infinite volte; né il fuoco può abituarsi a scendere in basso, né alcun’altra delle cose che per natura si comportano in un certo modo potrà essere abituata a comportarsi in modo diverso. Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene perché per natura siamo atti ad accoglierle, e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine. Inoltre, di quanto sopravviene in noi per natura, dapprima portiamo in noi la potenza, e poi lo traduciamo in atto (come è chiaro nel caso dei sensi: giacché non è per il fatto di avere spesso visto e sentito che noi acquistiamo questi sensi, ma viceversa noi li usiamo perché li possediamo, e non è che li possediamo per il fatto che li usiamo). Invece acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come avviene anche per le altre arti. Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi."
La virtù etica è concepita da Aristotele come una disposizione fondata sull'abitudine. Gli uomini sono dotati dalla natura della capacità di acquistare virtù. Tale capacità, tuttavia, rimane allo stato potenziale e non perviene ad attuarsi, se non in seguito al ripetuto esercizio di azioni idonee a conformare in senso virtuoso il carattere di chi le compie.
Questa concezione pone Aristotele in contrasto con la morale aristocratica secondo cui la virtù è un patrimonio innato dei migliori, un dono di natura.
Per contro, l'idea che la virtù etica si radichi nella esercitata consuetudine a compiere atti virtuosi distingue la posizione aristotelica dall'intellettualismo etico della tradizione socratico-platonica che fa dipendere l'acquisizione della virtù dall'insegnamento teorico. Aristotele non nega per questo il ruolo dell'educazione nella formazione della personalità virtuosa: solo egli ne individua il compito non tanto nella trasmissione di conoscenze teoriche quanto nell'opera tesa ad indurre nel giovane una propensione sempre più sicura e spontanea ad agire secondo virtù.
(sto cercando il testo del concetto che segue)
Strettamente collegato al precedente è un altro fondamentale aspetto per cui la prospettiva di Aristotele si distingue dall'intellettualismo etico: si tratta del ruolo attribuito alla volontà, concepita come la più alta funzione della facoltà desiderativa. Se per l'intellettualismo, essendo la virtù la sola conoscenza del bene, il male viene compiuto involontariamente per ignoranza, per Aristotele la conoscenza del fine buono non è condizione sufficiente perché si dia azione virtuosa, per la quale invece si richiede il concorso di volontà: se non siamo animati dalla volontà di agire in vista del raggiungimento di un bene, anche se di volta in volta sappiamo in che cosa esso consiste, non potremo conseguirlo. E, se dipende dalla volontà l'agire virtuoso, da essa, e non da ignoranza, dipendono anche le disposizioni viziose.
La virtù etica consiste allora nella disposizione, a lungo esercitata, a volere fini buoni.
Nessun commento:
Posta un commento