giovedì 19 settembre 2013

Dalai Lama - L'appagamento interno

Da L'arte della felicità del Dalai Lama con H.C.Cutler

"A volte mi sembra che l'intera civiltà occidentale si fondi sull'acquisizione di oggetti materiali: siamo circondati, bombardati dalla pubblicità che reclamizza i prodotti più recenti, come auto e altri beni di consumo. E' difficile non farsi influenzare. Le cose che vogliamo e desideriamo sono così tante da apparire un numero infinito. Che cosa pensa del desiderio?"
"I desideri, credo, sono di due tipi" rispose il Dalai Lama "Alcuni sono positivi, come il desiderio della felicità, che è giustissimo. Assai proficui sono anche altri, come quello della pace o di un mondo più buono e armonioso.
Ma a un certo punto i desideri possono diventare irragionevoli e, quando questo succede, di solito nascono problemi. In certe occasioni, per esempio, io entro nei supermercati. Mi piace molto visitarli, perché vedo tante belle cose. Ed ecco che, guardando la grande varietà di articoli, maturo un senso di desiderio e d'impulso posso dire: "Oh, voglio questo e quello". Poi però ci penso meglio e mi chiedo: "Ma ho davvero bisogno di tali oggetti?". E la risposta di solito è no. Se si segue il primo desiderio, l'impulso iniziale, presto si rimane con le tasche vuote. Un altro tipo di desiderio, quello dettato da bisogni essenziali come mangiare, ripararsi e vestire, è invece del tutto ragionevole.
A volte il giudizio sulla natura equa oppure smodata e negativa del desiderio dipende dalle circostanze o dalla società in cui si è inseriti. Lei, per esempio, vive in una società prospera dove bisogna disporre di un'automobile per cavarsela nella vita quotidiana; perciò è chiaro che in tale contesto non è un male desiderare una macchina. Ma se si abita in un povero villaggio dell'India nel quale si può stare benissimo senza l'auto, e tuttavia se ne desidera una, anche se si avesse il denaro per comprarla alla fine si rischierebbero conseguenze negative, perchè i vicini potrebbero provare un senso di fastidio. Oppure se si vive in una società prospera e si ha un'auto ma si continua a desiderarne di più costose, ecco che insorgono analoghi problemi."
"Ma non vedo quali inconvenienti procuri il volere o comprare una macchina più bella se possiamo permettercela" obiettai. "Il mio possedere un'auto più cara di quella dei vicini rappresenterà un problema per loro, che potrebbero provare invidia, ma per me, personalmente, sarebbe una fonte di soddisfazione e godimento."
 Scuotendo la testa, il Dalai Lama replicò con fermezza: "No. La soddisfazione personale, di per sè, non garantisce la positività o negatività di un'azione o di un desiderio. Un assassino può provare un senso di soddisfazione nel momento in cui commette l'omicidio, ma ciò non giustifica il suo atto. Tutte le azioni non virtuose, come mentire, rubare, commettere adulterio e così via, nel momento in cui vengono compiute possono procurare soddisfazione all'individuo che se ne rende responsabile. La linea di demarcazione tra un desiderio o un'azione positivi e un desiderio o un'azione negativi non è data dal senso di immediata soddisfazione che essi danno, ma dalle conseguenze positive o negative che alla fine provocano. Se per esempio vogliamo beni materiali più costosi e li vogliamo per un atteggiamento mentale che ci spinge a desiderare sempre più cose, alla fine raggiungeremo il limite di quanto è possibile acquisire e ci scontreremo con la realtà. Quando si raggiunge tale limite si perdono tutte le speranze e si precipita nella depressione e in altri mali. Questo è uno dei pericoli insiti in questo tipo di desiderio.
 "Penso dunque che il desiderio smodato conduca all'avidità, a una forma di brama che si basa su aspettative troppo grandi. Se si riflette sui suoi eccessi, si scoprirà che l'avidità procura all'individuo frustrazione, delusione e grande confusione, nonchè tanti problemi. L'avidità ha una caratteristica peculiare: benchè si manifesti come desiderio di ottenere qualcosa, non viene soddisfatta dal conseguimento dell'obiettivo. Perciò diventa in un certo modo illimitata, quasi senza fondo, il che genera problemi. L'avidità, ripeto, ha una proprietà curiosa, che suona ironica: per quanto si basi sulla ricerca di soddisfazione, anche dopo l'acquisizione dell'oggetto desiderato non dà contentezza. Il vero antidoto all'avidità è l'appagamento. Se abbiamo un forte senso di appagamento, non ci importa di ottenere o meno l'oggetto; in un modo o nell'altro, siamo ugualmente soddisfatti".

In quale maniera, dunque, possiamo pervenire all'appagamento interno? I metodi sono due. Il primo è ottenere tutto quanto vogliamo e desideriamo: soldi, case, auto, partner perfetto e corpo perfetto. 
Il Dalai Lama ha sottolineato lo svantaggio di tale approccio: se le nostre voglie e i nostri desideri sono incontrollati, prima o poi scopriremo di volere qualcosa che non possiamo avere. 
Il secondo metodo, quello affidabile, consiste non tanto nell'ottenere ciò che vogliamo, quanto nel volere e apprezzare ciò che abbiamo.

mercoledì 18 settembre 2013

La felicità, l'adattamento e lo stato mentale

Da L'arte della felicità del Dalai Lama con H.C.Cutler

"Due anni fa una mia amica ebbe un inaspettato colpo di fortuna. Diciotto mesi prima di quel lieto momento, aveva lasciato il suo impiego di infermiera per andare a lavorare in un piccolo centro sanitario fondato da due suoi amici. Il centro prosperò in maniera incredibile e nel giro di un anno e mezzo fu rilevato da una grande conglomerata per una somma enorme. Poichè fin dall'inizio era entrata nella nuova struttura come socia, dopo l'acquisizione la mia amica si ritrovò con così tanti diritti di opzione che potè andare in pensione all'età di trentadue anni. La vidi non molto tempo fa e le chiesi se si stesse godendo il tempo libero. "Be'" disse "è fantastico poter viaggiare e fare le cose che ho sempre desiderato fare. Ma è strano: dopo il primo, grande entusiasmo per aver guadagnato tutti quei soldi, oggi, in un certo senso, sono tornata alla normalità. E' vero che le cose sono diverse, perchè mi sono comprata una casa nuova e via dicendo, ma nel complesso non credo di essere molto più felice di prima." Quasi nello stesso periodo in cui lei si era ritrovata ricca per quel colpo di fortuna, un mio amico suo coetaneo scoprì di essere sieropositivo. "E' chiaro che all'inizio è stato un colpo durissimo" mi disse quando parlammo del modo in cui aveva affrontato la sua condizione. "Mi ci sono voluti molti mesi solo per accettare l'idea di avere contratto il virus. Ma nel corso di quest'ultimo anno le cose sono cambiate. Mi sembra di ricavare da ciascun giorno più di quanto avessi mai ricavato in  precedenza, e in questo mio vivere alla giornata mi sento più felice di quanto fossi mai stato prima. Mi sembra di apprezzare tutto di più a ogni momento che passa: sono contento di non avere ancora avuto gravi sintomi di AIDS conclamata e di poter gustare fino in fondo le cose che ho. E anche se preferirei non aver contratto il virus, devo ammettere che questa condizione ha impresso in certo senso alla mia vita delle svolte... positive."
"Quali?" chiesi.
"Be', saprai per esempio che sono sempre stato un incallito materialista. Ma in quest'ultimo anno, il dover realizzare e accettare la mia natura mortale mi ha disvelato un mondo nuovo. Per la prima volta nella vita ho cominciato a esplorare la spiritualità, a leggere molti libri sul tema e a parlare con persone... E ho scoperto in questo modo tante cose su cui prima non avrei mai pensato di riflettere. Mi riempie di entusiasmo anche il solo alzarmi la mattina, il solo aspettare quello che mi porterà la giornata."

Il caso di queste due persone illustra un concetto essenziale: la felicità è determinata più dallo stato mentale che dagli eventi esterni. Un grande successo può produrre una temporanea sensazione di euforia e una tragedia può precipitarci in un periodo di depressione, ma prima o poi il livello generale dell'umore tende a tornare al valore di base. Gli psicologi chiamano tale processo adattamento.

Se dunque è vero che, indipendentemente dalle condizioni esterne, tendiamo ad avere un livello base di felicità, che cosa determina tale valore? Secondo indagini recenti, il grado quotidiano di benessere di un individuo avrebbe, almeno fino ad un certo punto, origine genetica. Tuttavia, benché il corredo genetico svolga forse un ruolo nella felicità, quasi tutti gli psicologi convengono che, a prescindere dal livello di contentezza di cui ci ha dotato la natura, possiamo intervenire non poco sul "fattore mentale" per rafforzare il nostro senso di soddisfazione. La felicità quotidiana, infatti, è in gran parte determinata dalla nostra visione delle cose, dal modo in cui si percepisce la situazione, da quanto si è soddisfatti di quel che si ha.


Epicuro - Lettera a Meneceo

"L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l'età per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, I'età per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo.
Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di esse, perché sono i princìpi necessari fondamentali per una vita felice.
Per prima cosa tu devi considerare la divinità come un essere indistruttibile e felice, così come comunemente gli uomini pensano degli dèi; non attribuire quindi nulla alla divinità che contrasti con la sua immortalità e la sua beatitudine, e ritieni vero invece tutto ciò che ben si accorda con la sua felice immortalità.
Gli dèi infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli dèi in cui credono gli uomini, non è quindi empietà. Empietà è piuttosto attribuire agli dèi le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché non sono idee corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli dèi l'uomo trae i più gravi danni e vantaggi. Infatti gli dèi, che di continuo sono dediti alle loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad essi.
Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.
La maggior parte delle persone, però, fuggono la morte considerandola come il più grande dei mali, oppure la cercano come una liberazione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perché non è contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere più. Il saggio, così come non cerca i cibi più abbondanti, ma i migliori, così non cerca il tempo più lungo, ma cerca di godere del tempo che ha. è da stolti esortare i giovani a vivere bene ed i vecchi a morire bene, perché nella vita stessa c'è del piacere, ed è la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene.
Certo, è peggio chi dice: è bello non esser mai nati "ma, se si è nati, è bello passare al più presto le soglie dell'Ade". Se chi dice queste cose ne è convinto, perché non abbandona la vita'? è in suo potere farlo, se questa è la sua opinione e parla seriamente. Se invece scherza, parla da stolto su cose su cui non c'è proprio da scherzare.
Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto.
Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E di quelli naturali e necessari, alcuni sono necessari per essere felici, altri per la buona salute del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza dei desideri naturali necessari guida le scelte della nostra vita al fine della buona salute del corpo e della tranquillità dell'animo, perché queste cose sono necessarie per vivere una vita felice. Infatti noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l'animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c'è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere.
Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che è vano è difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere eguale, e pane e acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti dell'animo.
La prudenza è il massimo bene ed il principio di tutte queste cose. Per questo motivo la prudenza è anche più apprezzabile della filosofia stessa, e da essa vengono tutte le altre virtù. Essa insegna che non ci può essere vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e non v'è vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa è inseparabile dalle virtù.
E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi?
Un uomo così ha imparato a sorridere di quel potere - il fato - che per alcuni è il sovrano assoluto di tutto: di fatto ciò che accade può essere spiegato non soltanto attraverso la necessità, ma anche attraverso il caso o in quanto frutto di nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati.
Quanto al fato, di cui parlano i fisici, era meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi di esso: i miti infatti permettevano agli uomini di sperare di placare gli dèi per mezzo degli onori, il fato invece ha un'implacabile necessità. E riguardo alla fortuna non bisogna credere né che sia una divinità, come fanno molti - gli dèi infatti non fanno nulla che sia privo di ordine ed armonia - né che sia un principio causale; non bisogna neppure credere che essa dia agli uomini beni e mali che determinano una vita felice; da essa infatti provengono solo i princìpi di grandi beni e di grandi mali. E' meglio quindi essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati, perché è preferibile che nelle nostre azioni una saggia decisione non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione poco saggia sia coronata dalla fortuna.
Medita giorno e notte tutte queste cose, e ciò che è connesso con esse, sia in te stesso che con chi ti è simile: così mai, sia da sveglio che nel sonno, avrai l'animo turbato, ma vivrai invece come un dio fra gli uomini. L'uomo infatti che vive tra beni immortali non è in niente simile ad un mortale."

Dalai Lama - La felicità è lo scopo stesso della vita

Da L'arte della felicità del Dalai Lama con H. C. Cutler

"Perseguire la felicità è lo scopo stesso della vita: è evidente. Che crediamo o no in una religione, che crediamo o no in questa o quella religione, tutti noi, nella vita, cerchiamo qualcosa di meglio. Perciò penso che la direzione stessa dell'esistenza sia la felicità..."
"Ma la felicità è un obiettivo ragionevole per la maggior parte della gente? E' davvero possibile?"
"Sì. Credo che la felicità si possa ottenere addestrando la mente.[...]In questo contesto, quando parlo di "addestramento della mente" non intendo con "mente" solo le capacità cognitive o l'intelletto, ma assegno al termine il significato della parola tibetana sem, che è assai più ampio, più simile a "psiche" o "spirito", e include sentimento e intelletto, cuore e cervello. Adottando una certa disciplina interiore, possiamo mutare il nostro atteggiamento, la nostra intera visione del mondo e il nostro approccio alla vita." 
"Tale disciplina interiore può naturalmente comprendere molte cose, molti metodi. Ma in genere si inizia con l'identificare i fattori che conducono alla felicità e quelli che conducono alla sofferenza. Fatto questo, bisogna cominciare a eliminare a poco a poco i secondi e a coltivare i primi. Questo è il sistema."

Partiamo dunque dalla premessa fondamentale che lo scopo della vita sia la ricerca della felicità e che la felicità costituisca un obiettivo reale, uno stato dell'essere raggiungibile compiendo passi concreti.

martedì 17 settembre 2013

Aristotele - La virtù

Dall' Etica Nicomachea di Aristotele:

"[5] Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la virtù, giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa moltissime delle sue fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini buoni [10] e ossequienti alle leggi. Come esempio di uomini politici autentici abbiamo i legislatori di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne possono essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è propria della scienza politica, è chiaro che la ricerca si potrà svolgere conformemente alla nostra intenzione iniziale.
La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché [15] è il bene umano e la felicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come anche chi intende curare gli occhi [20] deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più in quanto la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei medici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque deve cercar di conoscere l’anima, e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo cercando, [25] giacché indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci siamo proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti essoterici25 in misura sufficiente, e possiamo servirci di quelli: per esempio, vi si dice che una parte di essa è irrazionale, e l’altra è fornita di ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come tutto [30] ciò che è divisibile in parti, o se invece le parti sono due solo idealmente, mentre per natura sono inseparabili, come nella circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa differenza per la presente argomentazione.
Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendo quella che è causa della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima [1102b] si può ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale, negli esseri completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia la stessa piuttosto che un’altra. Dunque la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva soprattutto durante il sonno, [5] e il buono ed il cattivo si differenziano molto poco nel sonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli uomini felici non differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile), a meno che, debolmente, pur le giungano alcuni movimenti, [10] e che sia per questo che i sogni degli uomini per bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può tralasciare la facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù umana. Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia in qualche modo partecipe di ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello incontinente, [15] la ragione, cioè la parte razionale dell’anima, giacché è essa che li esorta alle azioni più nobili. È manifesto poi in essi anche un altro elemento, che, per natura, è estraneo alla ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le membra paralizzate: quando uno si propone di muoverle a destra, si volgono, [20] al contrario, a sinistra; così avviene anche per l’anima: le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si volgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi vediamo l’elemento deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare che nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste. [25] In che senso sia estraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa, manifestamente, della ragione, come abbiamo detto26: nell’uomo continente ubbidisce di certo alla ragione, e forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché in essi tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche l’elemento irrazionale è duplice. La parte vegetativa non partecipa per niente [30] della ragione, mentre la facoltà del desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo, in quanto le dà ascolto e le ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo "accettare la ragione" del padre e degli amici, e non nel senso in cui diciamo "comprendere la ragione" delle dimostrazioni matematiche. E che l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo mostrano gli ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di esortazione. [1103a] Ma se è necessario dire che anche questo elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà duplice: l’una la possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come ad un padre.
Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune le chiamiamo [5] virtù dianoetiche altre virtù etiche: dianoetiche sapienza, giudizio e saggezza, etiche invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di un uomo non diciamo che egli è sapiente o giudizioso, ma che è mite o temperante; però lodiamo anche il saggio per la sua disposizione: e le disposizioni che meritano lode [10] le denominiamo virtù."

Poiché dunque il significato del termine "felicità" è venuto chiarendosi come "attività dell'anima secondo virtù", l'indagine si orienta verso l'analisi delle virtù. Aristotele osserva come tra due facoltà non razionali dell'anima quella vegetativa non abbia alcun rapporto con la ragione e invece quella desiderativa, collegata alla sensitiva, in qualche modo ne partecipi, per esempio quando ottempera alle esortazioni e alla direttive della ragione. Talchè si può dire che le parti dell'anima sulle quali la ragione esercita la propria influenza sono due: quella autonoma e direttiva e quella che obbedisca alla prima. Sulla scorta di questa distinzione, Aristotele suddivide le virtù in dianoetiche, proprie dell'anima razionale, ed etiche, proprie di quella desiderativa.

"Di due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica ed etica: quella dianoetica trae in buona parte la propria origine e la sua crescita dall'insegnamento,  cosicché necessita di esperienza e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall'abitudine,  dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla parola "abitudine". Da ciò risulta anche chiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura: infatti, nulla di ciò che è per natura può assumere abitudini ad essa contrarie: per esempio, la pietra che per natura si porta verso il basso non può abituarsi a portarsi verso l’alto, neppure se si volesse abituarla gettandola in alto infinite volte; né il fuoco può abituarsi a scendere in basso, né alcun’altra delle cose che per natura si comportano in un certo modo potrà essere abituata a comportarsi in modo diverso. Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene perché per natura siamo atti ad accoglierle, e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine. Inoltre, di quanto sopravviene in noi per natura, dapprima portiamo in noi la potenza, e poi lo traduciamo in atto (come è chiaro nel caso dei sensi: giacché non è per il fatto di avere spesso visto e sentito che noi acquistiamo questi sensi, ma viceversa noi li usiamo perché li possediamo, e non è che li possediamo per il fatto che li usiamo). Invece acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come avviene anche per le altre arti. Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi."



La virtù etica è concepita da Aristotele come una disposizione fondata sull'abitudine. Gli uomini sono dotati dalla natura della capacità di acquistare virtù. Tale capacità, tuttavia, rimane allo stato potenziale e non perviene ad attuarsi, se non in seguito al ripetuto esercizio di azioni idonee a conformare in senso virtuoso il carattere di chi le compie.
Questa concezione pone Aristotele in contrasto con la morale aristocratica secondo cui la virtù è un patrimonio innato dei migliori, un dono di natura.
Per contro, l'idea che la virtù etica si radichi nella esercitata consuetudine a compiere atti virtuosi distingue la posizione aristotelica dall'intellettualismo etico della tradizione socratico-platonica che fa dipendere l'acquisizione della virtù dall'insegnamento teorico. Aristotele non nega per questo il ruolo dell'educazione nella formazione della personalità virtuosa: solo egli ne individua il compito non tanto nella trasmissione di conoscenze teoriche quanto nell'opera tesa ad indurre nel giovane una propensione sempre più sicura e spontanea ad agire secondo virtù.

(sto cercando il testo del concetto che segue)

Strettamente collegato al precedente è un altro fondamentale aspetto per cui la prospettiva di Aristotele si distingue dall'intellettualismo etico: si tratta del ruolo attribuito alla volontà, concepita come la più alta funzione della facoltà desiderativa. Se per l'intellettualismo, essendo la virtù la sola conoscenza del bene, il male viene compiuto involontariamente per ignoranza, per Aristotele la conoscenza del fine buono non è condizione sufficiente perché si dia azione virtuosa, per la quale invece si richiede il concorso di volontà: se non siamo animati dalla volontà di agire in vista del raggiungimento di un bene, anche se di volta in volta sappiamo in che cosa esso consiste, non potremo conseguirlo. E, se dipende dalla volontà l'agire virtuoso, da essa, e non da ignoranza, dipendono anche le disposizioni viziose.
La virtù etica consiste allora nella disposizione, a lungo esercitata, a volere fini buoni

Aristotele - La felicità sta nell’esercizio della razionalità

Dall'Etica Nicomachea di Aristotele:

"Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos'è? È manifesto, infatti, che esso è diverso in un'azione e in un'arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un'arte, un'altra in un'altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c'è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.
Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: ma dobbiamo cercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, «più perfetto» ciò che è perseguito per sé stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per sé stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, perché la scegliamo sempre per sé stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per sé stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient'altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro.
Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un'affermazione su cui c'è completo accordo; d'altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell'uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un'arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l'uomo, se pur c'è una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n'è alcuna propria dell'uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c'è, manifestamente, una funzione determinata dell'occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell'uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell'uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch'essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell'anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l'altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell'anima dell'uomo l'attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell'ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l'eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell'uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell'anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell'uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell'uomo consiste in un'attività dell'anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d'una, secondo la migliore e la più perfetta.
Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice."

Nelle ricerche di filosofia pratica, Aristotele muove dalla constatazione che tutte le azioni degli uomini hanno come fine un bene. Essendo molteplici le azioni sono molteplici anche i fini: e, tuttavia, se la maggior parte dei beni viene ricercata in vista del conseguimento di altri beni deve esistere un bene il quale venga ricercato per se stesso, per evitare il regresso all'infinito, che svuoterebbe l'agire umano da ogni specificata finalità.
E' dunque necessario, in primo luogo, determinare quale sia il bene in vista del quale vengono ricercati tutti gli altri, cioè il bene supremo (agathòon to àriston): esso dovrà configurarsi come un bene effettivamente alla portata dell'uomo, da questi conseguibile mediante le sue azioni, cioè in definitiva un bene pratico.
Per Aristotele, il bene supremo cui l'uomo può aspirare è la felicità (eudamonìa), dal momento che essa trova concorde la maggioranza degli uomini.

Tuttavia, intorno al significato da assegnare al termine "felicità" regna il disaccordo. Il volgo identifica la felicità con il piacere dei sensi: ma tale piacere non può costituire il bene supremo conseguibile dall'uomo, essendo comune anche agli altri animali. Inaccettabile per Aristotele è anche l'identificazione della felicità con il possesso di ingenti ricchezze: mentre infatti il bene supremo costituisce il termine ultimo delle aspirazioni umane, la ricchezza è un mezzo del quale ci si serve in vista di altro

In quanto fine delle azioni, invece, la felicità deve essere qualcosa di autosufficiente (àutarches), cioè di desiderabile per se stesso, e di perfetto (tèleion). Come per il flautista il sommo bene consiste nell'esercitare con perfezione l'attività che gli è propria, così è necessario che la felicità consista nell'esercizio delle attività proprie dell'uomo: non nel nutrirsi e nel riprodursi (cioè nell'esplicarsi in facoltà dell'anima vegetativa, di cui dispongono anche le piante); e neppure nella percezione sensoriale, per la quale l'uomo è simile agli altri animali. Il bene pratico per l'uomo consisterà allora nel possesso (e ancor più nell'effettivo esercizio per il più lungo tempo possibile) di attività connesse all'impiego della ragione, la facoltà esclusivamente e propriamente umana; o, meglio, nell'esercizio di tali attività a livelli di eccellenza, nel quale consiste la virtù (aretè).


Buddismo - L'ottuplice cammino

E quale è, o monaci, la Nobile Verità del Cammino che conduce alla Cessazione della Sofferenza?

Essa è il Nobile Ottuplice Cammino, cioè Retta Visione, Retto Risoluzione, Retta Parola, Retta Azione, Retti Mezzi di sussistenza, Retto Sforzo, Retta Consapevolezza, Retta Concentrazione.

E cosa è, o monaci, la Retta Visione [altrimenti detta Retta Comprensione]? Comprendere la sofferenza, comprendere l'origine della sofferenza, comprendere la cessazione della sofferenza, comprendere il cammino che conduce alla cessazione della sofferenza: questa è la Retta Visione.

E cosa è la Retta Risoluzione [altrimenti detto Retto Pensiero]? Pensieri liberi da bramosie, pensieri liberi da malevolenza, pensieri liberi da crudeltà: questo è la Retta Risoluzione.

E che cosa è la Retta Parola? Astenersi dal mentire, dal calunniare, dal parlare aspramente, dal parlare di cose futili: questa è la Retta Parola.

E cosa è la Retta Azione? Astenersi dal togliere la vita, astenersi dal prendere ciò che non ci vien dato, astenersi da eccessi sensuali: questa è la Retta Azione.

E cosa sono i Retti Mezzi di sussistenza [altrimenti detta Retta Vita]? Quando il discepolo abbandona un modo di guadagnarsi la vita che non è confacente e ottiene sostentamento in modo confacente e corretto: questi sono i Retti Mezzi di sussistenza.

E cosa è il Retto Sforzo? Qui un monaco avanza il desiderio, fa uno sforzo, comincia una lotta, applica la mente, obbliga la mente ad impedire il sorgere di cattive e malsane condizioni non ancora sorte. In quanto alle cattive e malsane condizioni che erano già sorte, egli mette tutto l'impegno per distruggerle. Per le condizioni buone e profittevoli che non sono ancora sorte, egli pone intenso desiderio affinché sorgano. Per le condizioni profittevoli che sono già sorte egli pone desiderio, fa uno sforzo, comincia una lotta, applica la mente, obbliga lo sua mente per la loro continuazione, per non trascurarle, per aumentarle, per coltivarle, per portarle a maturazione. Questo è il Retto Sforzo.

E che cosa è lo Retta Consapevolezza [altrimenti detta Retta Attenzione]? Qui il monaco dimora praticando lo contemplazione del corpo nel corpo - praticando la contemplazione delle sensazioni nelle sensazioni - praticando la contemplazione della mente nella mente - praticando la contemplazione delle formazioni mentali nelle formazioni mentali, ardentemente, comprendendo chiaramente e attentamente, dopo aver superato le bramosie e le ambizioni del mondo: questa è la retta Consapevolezza.

E che cosa è la Retta Concentrazione [altrimenti detta Retta Meditazione]? Qui un monaco distaccato dalle cose sensibili, distaccato dalle cose malsane, entra nel primo assorbimento (Jhana), nato da distacco, accompagnato da pensieri concettuali e da pensieri discorsivi e si riempie di rapimento e di gioia. Dopo aver superato i pensieri concettuali e discorsivi, guadagnando tranquillità interiore e unificazione della mente egli entra in un secondo assorbimento libero da pensieri, nato da Concentrazione e si riempie di rapimento e di gioia. Dopo aver eliminato lo stato di rapimento, egli dimora equanime, attento, chiaramente cosciente ed esperimenta personalmente quella sensazione di cui i saggi dicono «Felice è l'uomo equanime ed attento»; questo è il terzo assorbimento. Infine abbandonando la gioia e il dolore, e superando le condizioni anteriori di felicità e di afflizione, egli entra in una condizione al di là della gioia e del dolore, nel quarto assorbimento che è purificato dalla equanimità e dalla attenzione. Questa è lo Retta Concentrazione.

Buddismo - Le quattro nobili verità




Così ho udito: una volta il Sublime dimorava presso Baranasi, a Isipatana, nel Parco delle Gazzelle.

Allora il Sublime si rivolse al gruppo dei cinque bhikkhu: 'Questi due estremi, o bhikkhu, deve evitare l'asceta; quali sono questi due estremi?

Quello connesso ai piaceri dei sensi, basso, plebeo, da gente comune, volgare, dannoso; e quello dell'automortificazione, doloroso, volgare, dannoso. Entrambi questi estremi evitando, o bhikkhu, la via di mezzo realizzata dal Tathagata compiutamente svegliato, apportatrice dichiara visione e di conoscenza, conduce alla calma, alla conoscenza trascendente, al risveglio, al nirvana.

E qual'è, o bhikkhu, questa via di mezzo realizzata dal Tathagata, che conduce alla calma, alla conoscenza trascendente, al risveglio, al nirvana? È questo nobile ottuplice sentiero, e cioè: retta visione, retta risoluzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione. Questa, o bhikkhu, è la via di mezzo realizzata dal Tathagata, che conduce alla calma, al nirvana.

Questa, o bhikkhu, è la nobile verità del dolore: la nascita è dolore, l'invecchiamento è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che non si ama è dolore, la separazione da quel che si ama è dolore, il non ottenere quel che si desidera è dolore. [...]

E questa, o bhikkhu, è la nobile verità dell'origine del dolore: è quella sete che porta alla rinascita, quella sete congiunta al diletto e alla brama, che qua e là trova compiacimento, e cioè: sete di piacere, sete di esistenza, sete di non-esistenza.

E questa, o bhikkhu, è la nobile verità della cessazione del dolore: è il totale annientamento della sete, la rinuncia, l'abbandono, la liberazione, il distacco.



 E questa, o bhikkhu, è la nobile verità della via che conduce alla cessazione del dolore: è questo nobile ottuplice sentiero, e cioè: retta visione, retta risoluzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione